La chiesa di San Mamete in Valsolda – Culto

1. È stata costruita intorno all’anno Mille: era in stile romanico, come è rimasta la chiesina di Santa Margherita al di là del lago Ceresio (sponda Sud, dopo Osteno) e come è rimasta, a Porlezza, la chiesina di San Maurizio. Fu poi rimaneggiata: una finestra rotonda (gotica, dunque) è intuibile dalla decorazione rimasta sulla facciata, sotto l’attuale finestra barocca: a pianta quadrata, con arco scemo (molto rabbassato). Lo stile gotico ha lasciato anche nella Chiesa, sulla parete di fondo, un affresco che si fa risalire al 1390-1400: pittura anonima, molto gentile, mostra la Madonna con in braccio Gesù che benedice il protettore della Chiesa e della frazione, San Mamete.

Altare
S. Mamete in Valsolda – Altare

Ma le innovazioni più importanti avvennero dopo il Concilio di Trento. San Carlo volle l’altare staccato dalla parete di fondo e costruito con il dorsale che fungesse da trono glorioso per la esposizione della SS. Eucarestia. Per mantenerlo stabile, il dorsale appoggia con un ponte alla parete di fondo, lasciando intravedere l’affresco gotico che prima era sopra all’altare. Ai lati della chiesa furono applicati quattro altari laterali: a destra entrando si trova quello dello Sposalizio della Madonna e S. Giuseppe; di fronte, vi è quello dell’Angelo custode; più avanti, a destra, vi è quello dedicato a Maria SS.; di fronte, quello della Deposizione di Gesù dalla croce (detto anche altare di San Pietro martire).

2. Il campanile è rimasto romanico: ed è un capolavoro, non rovinato neppure dalla cuspide conica, di matrice cinque-secentesca. Ci si può chiedere a questo punto come poté sorgere l’arte romanica proprio attorno al Mille, sui laghi di Como (onde il nome di “maestri comacini”) e di Lugano. Nessuno può dettar leggi al genio: ne sorgono quando e come Dio vuole. Ma la società può creare le condizioni perché un uomo ingegnoso possa realizzare le espressioni artistiche che gli sorgono in mente. Ora tali condizioni sono essenzialmente due: il tempo libero (per “pensarci su”) e una determinata cultura che orienta, anche se non determina, la mente dell’artista. Ebbene, il tempo libero l’aveva creato l’imperatore Ottone I il grande; la cultura la offriva continuamente la vita religiosa della Chiesa. Nel 955 Ottone I vince gli ultimi barbari nomadi in Occidente. Dopo quasi seicento anni, l’Occidente non subirà più incursioni. La vittoria di Augusta o di Lechfeld costringe gli Ungheri a stanziarsi lungo il Danubio e il Tibisco, cristianizzandosi e lasciando in pace l’Europa, per almeno quattro secoli. Occorrono poi due generazioni (cioè 25 + 25 anni) per creare quel tanto di benessere che offra tempo libero. Colla pace, in 50 anni crescono gli uomini di numero, crescono le terre coltivate, cresce il prodotto agricolo ed i commerci: alcuni – i benestanti – cominciano ad avere più beni dello stretto necessario per sopravvivere. Non si occupa allora tutto il tempo per strappare il pane alla terra, ma se ne avanza per divertirsi, pregare di più e anche per studiare e creare opere artistiche. Il maggior benessere permette anche di realizzarle, non costruendo più solo per proteggersi dalle intemperie, ma anche per esprimere un’armonia interiore che consiste in particolari rapporti fra pieni e vuoti, tra le varie dimensioni dell’opera architettonica. Ebbene, dopo 50 anni da Lechfeld, sorse lo stile romanico: la costruzione che equilibra la massa delle muraglie con aperture che la ingentiliscono e con gli archetti pensili ciechi e senza colonne ad ogni piano a distanze regolari che le danno una impressione di movimento. Così la maggior complessità delle chiese romaniche introduce un equilibrio fra pieni e vuoti, fra staticità e movimento. La costruzione costringe ad elevare gli occhi verso l’alto e l’anima verso il Cielo.
Il campanile, sulla facciata verso il lago (sud) presenta infatti delle aperture al centro di ogni ripiano: la fessura si allarga continuamente, fino a sfociare nella cella campanaria. In tutto è alto m. 28, distinto in 5 piani: è il più bello della valle ed è anche la parte artisticamente più valida di tutta la costruzione e decorazione. Difatti il sopralzo della chiesa (visibile dalle linee residue, sulla facciata, del primo frontespizio a capanna), l’attacco della chiesa al campanile (prima staccato) e l’aggiunta dei 4 altari laterali han tolto ogni linea coerente ed ogni stile definito alla struttura architettonica. La decorazione interna, quasi tutta barocca, non regge al paragone della sobrietà e solennità della torre campanaria, che comunica davvero un senso di commozione epica.

3. La chiesa fu consacrata (dal card. S. Nardini) nel 1470 (la festa tradizionale cade il 2 gennaio). La visita di san Carlo portò a modifiche sostanziali, che condussero col tempo (durante la fine del 1500 per il presbiterio, lungo il secolo XVII per la decorazione) al distacco dell’altare dalla parete di fondo, alla costruzione del dorsale per l’esposizione eucaristica ed alla sistemazione degli altari laterali (esisteva già anche quello dell’Angelo custode). Tutta la Valsolda dipende ancora da Porlezza fino al 1546, quando si stacca e diventa parrocchia con centro in San Mamete (chiesa matrice delle altre parrocchie che dal 1603 – per Castello – al 1682 – per Cressogno – si staccarono da San Mamete: Puria nel 1605, Albogasio nel 1628 e Loggio nel 1647). Eretta in vicariato foraneo, è però sempre parte della prepositura di Porlezza fino al 1841, quando il card. Carlo Gaysruck eresse S. Mamete prevostura separata da Porlezza. Con Porlezza si è tornati dopo il Concilio Vaticano nel 1969.

4. Se si eccettua lo zoccolo che percorre tutta la chiesa, le pareti interne dell’unica navata e del presbiterio sono o affrescate o coperte di tele ad olio o festosamente decorate. Al posto dello zoccolo, il presbiterio ha i banchi del coro, in noce. L’altare (provvisorio) è ora rivolto al popolo.

Benedizione di Gesù a San Mamete
S. Mamete in Valsolda – San Mamete riceve la
benedizione di Gesù bambino
Affresco 1390-1400

Sulla parete di fondo, visibile solo dal lato destro dell’altare è ancora parlante l’affresco tardo gotico del 1390-1400. San Mamete, che riceve la benedizione di Gesù bambino, è rappresentato con croce di tipo orientale (due aste trasversali). Tutti d’altronde vestono lunghe tuniche di tipo bizantino. Dolce signorilità: pace e serenità, sovrane e benevole.

5. Fra gli affreschi che completano la parete di fondo, spiccano le pitture di Geremia ed Isaia. Nell’aspetto diverso (piangente, Geremia; fiducioso e solenne, Isaia), un dato comune li unisce: l’effetto prospettico riuscito. Sembrano due statue poste in nicchie nella parete! Ecco il segreto dell’arte e dell’artificiosità dei pittori barocchi. Essi possedevano ormai tutti la capacità di fingere la prospettiva: cosa che nel primo Cinquecento non era ancora dominio universale, ma segreto, sia pure di molti. Ormai tutte le scuole trasmettono la tecnica, gli accorgimenti per simulare la profondità, il movimento, cosicché ogni pittore sa dipingere plasticamente, a tre dimensioni, e sa addirittura imitare la deposizione del Mantegna, facendo sì che la figura segua lo spettatore spostandosi da destra a sinistra con lui (si veda per questo effetto prospettico, il Cristo Giusto Giudice nella cappella ai piedi della scalinata, usata ora come chiesa feriale).

6. Alle pareti laterali dell’altar maggiore stanno gli affreschi riguardanti i due santi patroni della parrocchia: la conversione del primo drappello inviato ad arrestare l’eremita san Mamete (sulla sinistra: anonimo e senza data, ma presumibilmente dell’inizio del 1600); il martirio per fuoco di sant’Agapito, sulla destra (unica pittura firmata e datata della chiesa: lo dipinse Salvatore Pozzi nell’anno 1637, su commissione del fratello, don Domenico I Pozzi, parroco di San Mamete e nativo di Puria).
Su san Mamete abbiamo poche notizie. Ma il motivo della reticenza sui dati storici della sua vita e martirio (la data del 272 è tradizionale, non scientificamente documentabile) è spiegabilissimo: prima del Vangelo e della Omelia di san Basilio, la vita del santo anacoreta era già stata proclamata come una delle letture della Messa: o almeno così è probabile. Non è il caso quindi di negarne l’esistenza, facendo di lui una forma cristianizzata della dea “Ma” o Cibele, onorata nel Medio Oriente nei primi secoli cristiani ed ultimi pagani. Anche san Gregorio di Nazianzo cita un esempio della vita di san Mamete in una sua predica. È vero che siamo a poco più di 100 anni dalla data (probabile) del martirio: ma sia Basilio che Gregorio erano due persone intellettualmente acute e critiche: non c’è motivo di dubitare della loro autorità riguardo alla esistenza del santo.

San Mamete in Valsolda: Affresco sulla parete destra del presbiterio: l’arresto di San Mamete con la conversione del primo drappello di soldati; in fondo a destra la pacifica convivenda di animali domestici e selvaggi (vedi particolare).

Più documentata vorremmo fosse invece la tradizione qui dipinta della “conversione del primo drappello di soldati” spediti ad arrestare Mamete durante la tremenda persecuzione dell’imperatore Aureliano (270-275). Mamete avrebbe tenuto presso di sé, in perfetta pace, animali domestici e feroci: caprette e leoncelli! Al vedere simile miracolo, il capo dei soldati, anziché arrestarlo, scende dalla cavalcatura, si toglie l’elmo e si inchina all’eremita taumaturgo. Un secondo drappello lo arresta e conduce al martirio (questa, la tradizione). La data del 17 agosto è ancora più incerta: coincide difatti con la data di un diverso san Mamete, un cristiano e sacerdote venuto dall’Oriente a catechizzare la Francia: non è martire, ma missionario dell’Alvernia. San Mamete è infatti il patrono della diocesi di Saint Flour; e nella zona esiste un paese chiamato Saint Mamet le Salvetât. Questo particolare rende difficile indovinare se il culto a san Mamete (attestato in Lombardia anche da un altro centro parrocchiale del Varesotto: Oltrona San Mamete, mentre nel Canton Ticino vi è un oratorio dedicato al santo a Mezzovico in Val Vedeggio, e nella cattedrale di san Lorenzo a Lugano a san Mamete è dedicato un affresco) sia giunto a noi attraverso la Francia Carolingia o attraverso Ravenna e l’impero bizantino.
Su sant’Agapito (Amabile) abbiamo poche notizie ma sicure. Egli era uno dei sette diaconi del papa Sisto II, che governò la Chiesa negli anni di persecuzione sotto l’imperatore Valeriano. Succeduto al papa Stefano nel 257, cadrà martire il 6 agosto del 258. Valeriano aveva già emanato un editto di persecuzione il 2 agosto del 257: ma l’amministrazione civile ed i tribunali avevano boicottato l’editto e pochi casi di persecuzione ci furono. Allora Valeriano affidò l’esecuzione di un secondo editto all’esercito, con l’ordine di giustiziare sul luogo tutti gli ecclesiastici riconosciuti come tali. Il 6 agosto del 258, soldati irrompevano nelle catacombe di Callisto, dove Sisto II stava celebrando la messa con 4 diaconi e alcuni preti. Tutti furono uccisi sul posto. Il giorno dopo altri due diaconi – fra cui Agapito – furono presi e martirizzati. L’arcidiacono (che fungeva anche da economo e di solito succedeva al papa in Roma, od al vescovo, altrove) era Lorenzo: egli fu giustiziato solo il 10 di agosto, perché si sperava di ottenere soldi da lui. Secondo la tradizione egli avrebbe eluso la loro attesa e li avrebbe ingannati, promettendo dapprima il denaro, ma solo per avere tempo di distribuire quanto c’era nella cassa ai poveri, alle vedove, agli orfani. Poi prese costoro e li portò all’autorità romana, dicendo: “Ecco il tesoro della Chiesa!”. Per questo egli fu ucciso sulla griglia, a fuoco lento: vollero vendicarsi della beffa loro giocata dal santo diacono. Questo tipo di martirio (il fuoco) ha indotto il pittore Salvatore Pozzi a far bruciare anche Agapito: il che non è verosimile, essendo l’ordine di uccidere sul posto e, dunque, per spada, gli ecclesiastici. Si noti nel grande affresco il costume di tipo orientale anzi musulmaneggiante: al tempo del barocco i persecutori della Chiesa non erano più i soldati romani, ma i seguaci di Maometto… Ma il dipinto è poi svagato da personaggi di comodo (come il paggio in primo piano a sinistra) o in attitudine incerta fra l’orrore e la soddisfazione: il santo martire ha un atteggiamento un po’ patetico: muore troppo giovialmente!

7. Sant’Agapito, diacono e martire, ha indotto i parroci a far dipingere due pale ad olio ai lati della navata subito vicini al presbiterio, poste in simmetria a destra e a sinistra: san Lorenzo, l’arcidiacono di sant’Agapito, è sulla destra; santo Stefano, il primo martire cristiano e diacono, sulla sinistra.
Il grande arco, che divide il presbiterio dalla navata dei fedeli, è tutto affrescato, con le figure di Dio creatore (al centro), di Eva (a destra) e di Adamo: quest’ultimo – sulla sinistra di chi guarda – è forse la pittura più bella di tutta la chiesa, dopo o assieme all’affresco tardo-gotico dietro l’altare (di cui si è già parlato). È figura animata dal giusto, naturale stato d’animo: tiene in mano il frutto proibito in atteggiamento di grave pensosità: da quella disubbidienza dipende il destino di tutta la famiglia umana che da lui discenderà! Non c’è dramma, ma pensosità ed elegia (tristezza tenue, non violenta).
Di fianco al presbiterio, prima delle pareti laterali, vi sono due spazi che allargano la chiesa oltre il presbiterio stesso. Sulla destra dal basso in alto, vediamo la porta della sagrestia, la statua di san Paolo e la tela ad olio di san Carlo Borromeo, copatrono della diocesi di Milano, cui le venti parrocchie attorno a Porlezza, Valsolda compresa, appartengono. Sulla sinistra vi è una finta porta, la statua di san Pietro e la tela ad olio di sant’Ambrogio. Si noti come le due tele siano in tonalità chiare, fredde (giallino e scuro) e spiccano per sobrietà di espressione anche di fronte alle altre pitture barocche (tele ed affreschi), che sono a tonalità più calde (arancioni e rossi e marroni) e con espressioni meno severe, meno raccolte e più marcate.
Nella prima sacrestia vi è un affresco ovale sul soffitto: rappresenta Dio Creatore fra testine di angeli alate. Nella seconda sacrestia, oltre agli arredi sacri, vi sono 19 pitture, fra cui 14 tavolette di legno (circa mezzo metro di lato) con Nostro Signore, Maria SS. e i dodici apostoli. Tutte pitture necessitanti restauro urgente, anche per la carie che sta intaccando lo stesso materiale ligneo.

8. Il resto della navata è tutto decorato, affrescato o coperto di tele ad olio: la volta invece è decorata splendidamente, con tonalità forti, che giungono fino al violaceo. Nella volta vi sono anche due affreschi, non particolarmente belli, di forma ovale.
Le tele sulla sinistra sono quelle di san Tommaso d’Aquino, confratello di san Pietro martire, di cui parleremo a proposito del secondo altare di sinistra (più presso le balaustre) a lui dedicato. L’altra tela rappresenta sicuramente una santa martire, avendo in mano la palma. Che si tratti di sant’Orsola lo si deduce dalla corona che ha sul capo: sarebbe dunque la leggendaria figlia di un re cristiano d’Inghilterra venuta sposa sul continente e morta martire.
Di fronte a sant’Orsola sta santa Margherita (lo si deduce dal drago, che fa parte dell’iconografia di questa martire); di fronte a san Tommaso sta un’altra martire con la palma in mano, ma in abito ed atteggiamento così mondano da non suggerire un nome che la identifichi. Abiti svolazzanti e tecnica sicura, ha una espressione quasi ironica, o comunque sbadata. Si noti, sotto di loro e sopra il confessionale di destra, la finta nicchia, che vuol essere in simmetria alla porticina che immette sul pulpito nella parete sinistra. Qui la porta è così ben figurata da parere vera.

S. Mamete in Valsolda – Affresco: Sposalizio di Maria e Giuseppe [v. altare].

9. Ed eccoci agli altari laterali. Quello più vicino alla balaustra, sulla destra, è dedicato a Maria SS.: la statua non è barocca; del Seicento invece sono gli affreschi, ritoccati purtroppo nella ridecorazione della chiesa del 1922. Sempre sulla destra, il primo altare laterale (più presso la porta d’ingresso) è dedicato allo sposalizio di Maria e Giuseppe. La tela è significativa per la figura di Maria SS., di stile forse manieristico: comunque bella e convincente. Del resto, la pala è rovinata per il tempo e per uno strappo dovuto alla caduta di una scala, durante l’impianto della corrente elettrica.

S. Mamete in Valsolda – Affresco: Angelo custode [v. altare].

Rimanendo in fondo alla chiesa, ma sul lato destro, troviamo l’altare dell’Angelo custode. La cappella è tutta affrescata: al centro vi è l’Angelo che addita ad un fanciullo il Paradiso, sottraendolo al demonio che abbranca il bimbo per i piedi. Brutto il demonio, patetico il bambino nel suo affidamento all’Angelo; poco significativo il volto dell’angelo, invece. Ma l’altare è un classico esempio di fusione (o tentativo di fusione) delle arti figurative in una sola opera. L’altare, con pilastri e capitelli, con un coronamento ad arco, è già un monumento architettonico, che fa da cornice all’affresco centrale. Questo vuol continuare nella volta della cappella, rappresentando il Paradiso che l’Angelo addita al fanciullo dal di dentro della cornice architettonica dell’affresco. I fianchi della cappella rappresentano poi due episodi di intervento degli angeli: uno del vecchio Testamento (l’angelo che distrugge l’esercito di Sennacherib: vedi secondo libro dei Re, ai capitoli 18 e 19); e uno del nuovo Testamento (l’angelo che libera san Pietro dalla prigione di Erode Antipa, Atti degli Apostoli, cap. 12)
Il pittore barocco dimostra piena padronanza della tecnica di prospettiva e di ogni finzione (movimento del mantello dell’Angelo custode, ecc.), ma purtroppo non attende gran che all’espressione del viso e del rapporto dei gesti con l’emotività. In questo modo, l’emozione lirica, se c’è, è patetica, eccessiva (sul volto del bimbo che si lascia guidare dall’angelo); oppure è assente. Gli artisti barocchi si credevano grandi, perché padroneggiavano la tecnica: mancava loro un sentimento profondo da esprimere.
Infine il più vicino alla balaustra, sulla destra degli altari laterali, è quello chiamato della “Deposizione” o di “S. Pietro martire”. La tela centrale rappresenta la deposizione di Cristo dalla croce. Bellissima l’esecuzione, ma il volto di Maria è insopportabilmente patetico, cioè esprime dolore non dominato e non sublimato. In alto compaiono angeli attorno alla croce, in colori più tenui rispetto al solito, caldo e carico giallo-arancione, rosso-nero del barocco: vi è un azzurro e un rosa raffinati, mentre dietro la croce l’alone di luce sembra creare uno spazio prospettico, che manca al resto della tela. Il corpo del Cristo rimane la cosa migliore per la plasticità e levigatezza del dipinto. Ai fianchi di Cristo e di Maria SS. stanno due santi: a destra san Domenico, il fondatore dei Domenicani, contemporaneo a san Francesco (1170-1221); a sinistra, san Pietro da Verona, domenicano, nato nel 1206, entrato nell’Ordine domenicano, inquisitore per le città di Como e di Milano contro l’eresia càtara e da tali eretici fatto uccidere nel 1252, in un bosco presso Seveso, mentre discendeva verso la metropoli: là dove ora sorge il santuario a lui dedicato, che dà il nome (San Pietro) anche a quella frazione del comune di Seveso. Il motivo della pittura dei due santi domenicani (e di san Tommaso, nella tela già descritta) e degli affreschi illustranti la vita di san Pietro da Verona nella lunetta dell’altare medesimo, è lo stesso per cui in Valsolda fiorì a più riprese anche una confraternita di S. Pietro martire e la devozione al santo è attestata in altari in Puria ed in Loggio, nelle chiese parrocchiali. Si tratta del fatto che uno dei capi della eresia càtara (degli Albigesi o dei Bulgari o dei Patarini) in Lombardia aveva qui in Valsolda un castello, proprio là dove ora è sorta una frazione della Valle col nome di Castello e con la chiesa parrocchiale dedicata a San Martino, come lo era la chiesetta della fortezza abbattuta da Gian Giacomo Medici detto il Medeghino, zio di san Carlo, che fu signore di fatto in valle dal 1527 al 1531.
L’eresia càtara era un residuo del Manicheismo, sorto in Persia nel III secolo d.C. (Mani, il fondatore: 216-277). Esso insegnava l’esistenza di due princìpi ultimi: il dio del bene (e degli spiriti) e il dio del male (e della materia). La prima diffusione di un certo benessere (a partire dalle prime generazioni dopo il Mille) aveva suscitato una reazione che non si esprimeva, come nel secolo scorso, in un materialismo esasperato e avido di uguaglianza a costo di una rivoluzione violenta, ma in uno spiritualismo esasperato, in un fanatismo che, riprendendo le dottrine di Mani, condannava, come creature del demonio, il corpo, la terra, il cibo, il danaro e la sessualità tutta. Il meglio era morire, vivendo vergini senza darsi dei discendenti, per non prolungare il peccato e il dominio del demonio. Il Dio buono infatti aveva creato solo gli angeli e le anime per il Paradiso. Tale eresia (disumana ed autolesionista) finiva per distinguere i perfetti (che non si sposavano, che digiunavano vivendo solo del minimo indispensabile per evitare il suicidio, con una contraddizione evidente) ed i comuni adepti, cui era tollerata la vita normale, salvo l’assoluzione in fin di vita. Fra gli altri effetti, vi era il fatto che tali eretici, sia perché perseguitati dalla chiesa, sia perché ritenevano che il pesce fosse “meno materiale” che non la carne, si ritiravano lungo fiumi e laghi a vivere di pescagione. Ed uno dei capi della pataria o eresia càtara della Lombardia aveva un castello presso Albogasio, frazione della Valsolda, dove si era ritirato a vivere.
La Chiesa, maestra di umanità (come ebbe a dire papa Paolo VI), combatté tali eretici dapprima con le discussioni e le trattative (in cui si distinse san Domenico di Guzman), specialmente nel sud della Francia, dove il benessere (e, bisogna dirlo, la corruzione facilmente ad esso legata col malcostume delle classi abbienti, che scandalizzavano i fedeli e li portavano a simpatizzare per la nuova setta, per motivi sia religiosi: l’eresia spiegava fin troppo chiaramente il contrasto fra anima e corpo, fra intelligenza e passioni, fra volontà e istinti; sia per motivi etico-morali: appunto la corruzione delle classi benestanti; sia per motivi socio-economici: l’invidia e il desiderio di partecipare di tale benessere riservato a troppo pochi) si era diffuso prima che altrove, per il commercio dei porti e la ricchezza dell’entroterra. Due concili scomunicarono gli eretici prima che venisse proclamata la crociata contro di essi, dopo che gli Albigesi ebbero ucciso il legato papale in Francia, inviato per trattare con loro. I feudatari del nord della Francia discesero con mire espansionistiche e fecero piazza pulita dell’eresia, ben al di là delle intenzioni di papa Innocenzo III (1208-1216). Sradicata con tale impresa militare l’eresia in Francia (morì con essa anche la lingua d’oc e la letteratura ad essa congiunta), singoli gruppi rimasero specialmente in Lombardia. Uno dei capi era Stefano Confalonieri, che si era rifugiato in Valsolda, al detto castello di Albogasio: fu lui a dar ordine a un suo fedele, detto il Carino, di tendere un’imboscata ed uccidere l’inquisitore che non dava loro tregua. Il Carino, dopo aver ammazzato con un colpo di falcastro il domenicano, si pentì e si fece frate laico nell’ordine di san Domenico. La pala testimonia così, al vivo, della vita complessa di un’età che, pur non senza confusioni fra potere ecclesiastico e civile, aveva però una sua coerenza di fede e una schiettezza di atteggiamenti che portavano dalla sincerità alla conversione, come dalla disponibilità al martirio alla persecuzione dell’eretico. In difesa di valori anche umanistici, elementari comunque.

don Marcello De Grandi
(Parroco SS. Mamete e Agapito, Valsolda)

fotografie di Fernando Mattaboni

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